Nella sentenza n. 25804 del 23 settembre 2021 la Corte di Cassazione si è espressa in merito ad un accertamento emerso a seguito di indagini bancarie, affermando come, nel processo tributario, la sentenza assolutoria emessa in sede penale con la formula “il fatto non sussiste” ha un valore meramente indiziario; allo stesso modo, sono irrilevanti le dichiarazioni, favorevoli al contribuente, che non riportano una data certa e sono state rese da madre e sorella di quest’ultimo.
La vicenda esaminata dalla Corte di Cassazione
Prendendo in esame questa motivazione, ancorata alla sentenza penale che, con la formula “il fatto non sussiste”, aveva escluso la responsabilità del contribuente, la Corte di Cassazione ha ricordato come la giurisprudenza di legittimità avesse già affermato che la sentenza penale irrevocabile di assoluzione dal reato tributario, emessa con la formula “perché il fatto non sussiste”, non spiega automaticamente efficacia di giudicato nel processo tributario, anche nel caso in cui i fatti accertati in sede penale siano i medesimi per i quali l’Amministrazione finanziaria ha emesso l’atto di accertamento nei confronti del contribuente; la sentenza penale può essere presa in considerazione come possibile fonte di prova da parte del giudice tributario, il quale, nell’esercizio dei propri poteri di valutazione, ne verifica la rilevanza nell’ambito specifico in cui detta decisione è destinata ad operare. Perciò, se ciò implica che è compito del giudice tributario valutare la rilevanza dei fatti accertati in sede penale, il ricorrente aveva l’onere di indicare quali fossero quei fatti e in quale misura essi potevano incidere nella controversia fiscale.
Il ricorrente, con il medesimo motivo, aveva poi denunciato la violazione del principio del ne bis in idem, sottolineando in particolare l’illegittimità della decisione per non aver considerato la sovrapposizione e il cumulo delle sanzioni penali e fiscali.
Anche questa motivazione è stata dichiarata inammissibile dalla Corte, in virtù dell’insussistenza di condanna in sede penale e di sanzioni penali (nel caso di specie) e quindi della ipotesi del cumulo delle sanzioni, e indipendentemente dai principi maturati in materia e dalle condizioni imposte anche dalla giurisprudenza Euro-unitaria, al fine di preservare il contribuente dalla doppia sanzione, che avrebbero richiesto una serie di presupposti (come i cosiddetti criteri Engel enunciati dalla Corte EDU), comunque inesistenti nella fattispecie concreta.
Le dichiarazioni dei familiari nel Processo tributario
Inoltre il ricorso in Cassazione veniva dichiarato inammissibile anche per l’altra motivazione, con la quale l’interessato sosteneva che il giudice d’appello avesse gestito in modo errato le prove allegate, in particolare non attribuendo valore alle dichiarazione di terzi (madre e sorella) prodotti dal ricorrente a dimostrazione della provenienza dei versamenti sul proprio conto corrente.
Infatti, le dichiarazioni rese in sede extragiudiziale possono traslare nel processo tributario, in attuazione dei principi del giusto processo e della parità delle parti di cui all’art. 111 Cost., e all’art. 6 CEDU. A tali dichiarazioni deve essere riconosciuto valore probatorio, collocandole tra gli elementi indiziari, che come tali devono però essere valutati dal giudice nel contesto probatorio emergente dagli atti.
Pertanto è tra i “poteri-doveri” del giudice tributario valutare l’attendibilità del contenuto delle dichiarazioni, nel contesto della corretta applicazione del principio della libera valutazione delle prove, così come al giudice tributario è attribuito l’obbligo di confrontare le dichiarazioni acquisite, in modo da verificare l’attendibilità dei dichiaranti in base ad elementi soggettivi ed oggettivi, come la loro qualità e vicinanza alle parti, così come la congruenza delle dichiarazioni alla luce di eventuali ulteriori elementi allegati al processo.
Il giudice regionale, partendo dai principi formulati dalla giurisprudenza di legittimità in merito alla rilevanza indiziaria delle testimonianze scritte, aveva effettivamente rilevato che “pur ritenendo ammissibili le dichiarazioni introdotte dal contribuente, esse non appaiono idonee a fornire la prova contraria tale da dimostrare, in modo oggettivo e determinato, la natura e l’origine delle movimentazioni bancarie e superare la presunzione legale relativamente alle operazioni di accredito e di addebito. Fra l’altro, perché si tratta di dichiarazioni di terzi legati a vincoli familiari, prive di data e provenienza certa, comunque senza ulteriore riscontro probatorio”.
A tal proposito la Cassazione ha rilevato come la questione evidentemente si riferisse ad una valutazione di fatto, peraltro non priva di rilevanza sul piano logico, considerato quanto decretato dalla competente commissione tributaria regionale sulla inattendibilità di quelle dichiarazioni sotto un triplice profilo, ossia:
- la provenienza da familiari
- l’assenza di data certa
- la mancanza di ulteriori riscontri probatori.
Con queste argomentazioni il giudice regionale aveva quindi ritenuto che le dichiarazioni non avessero una valenza indiziaria sufficiente a superare il dato oggettivo delle operazioni bancarie e delle presunzioni ad esse riconducibili. La Suprema Corte ha dichiarato l’iter logico seguito dal giudice conforme ai principi secondo cui nel contenzioso tributario deve essere riconosciuta al contribuente, al pari che all’Amministrazione finanziaria, la possibilità d’introdurre nel giudizio innanzi alle commissioni tributarie dichiarazioni rese da terzi in sede extra processuale.
Ciò premesso, la Corte ha rilevato che il giudice di appello si fosse attenuto a questi principi, tanto che nella motivazione della sentenza impugnata emergeva come le dichiarazioni non fossero state ignorate, ma valutate, mentre le critiche mosse dalla difesa del ricorrente, nel giudizio di ultima istanza in realtà sollecitavano quella rivalutazione di merito, che in realtà è inibita in sede di legittimità.